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Buona lettura!

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ARGENTINA – Racconti tra cactus, granito, terracotta e stelle infinite di Francesca Mondin

5 Set 2019

I° Parte- Portare il pane
Santa Rosa del Tastil, 3200 metri dal mare, 30 aprile 2019 Il sole è ancora timido dietro le montagne, una leggera penombra inizia a ritirarsi tra le rocce mentre mi incammino verso il locale in mattoni dove Sandra prepara colazioni, pranzi e cene per turisti o visitatori. Il profumo di caffè si mescola con quello della Rica rica, un arbusto che cresce nella Puna salteña e che assieme al mate cocido e all’erba limoncina, diventa un toccasana per i meno 5 gradi che ci sono fuori. Mancano pochi minuti alle sette e l’umile ‘negozio’ di Sandra è già in piena attività: cafè con leche, mate cocido e infuso di caffè; tutto accompagnato da maizanite o pan casero sfornati la notte prima.
Iniziano così le giornate di Ramon e Sandra nei monti rocciosi di granito e cardon dove il cielo è turchese come le fiabe anche quando ci sono le nuvole. Chiudiamo il negozio e via si parte a distribuire il pane nelle scuole e alle famiglia bisognose, oggi c’è pure una sorpresa: Dulce de leche para compartir! Nelle scuole i bambini ci accolgono tra sorrisi e abbracci: “Don Ramon, mamy Sandra!” poi, guardano me un po’ incuriositi ed arriva il momento di aiutarmi con la gesticolazione tipicamente italiana. E così tra risate, mimi, parole improvvisate, spagnolo masticato e venetizzato rispondo alla valanga di domande che mi rivolgono. Non so quanto riesco a farmi capire ma sicuramente è uno scambio divertente ed io inizio ad affezionarmi a questi volti curiosi pieni di allegria e gioia. Quella allegria che resta esuberante nonostante i chilometri sotto il sole o il freddo che questi bambini fanno ogni giorno per andare a scuola e che io invece, rifletto tra me, spesso lascio soffocare da problemi futili e pensieri fugaci. Quella gioia che incontriamo poco dopo negli occhi di una delle tante abuele a cui portiamo il pane e l’acqua. Muri di terra cruda alti poco più di un metro e sessanta ed un tetto in terra e paglia sono le uniche protezioni dal vento e dal gelo. Entriamo, le diamo il pane e l’acqua.
Le pareti nere per il fuoco di cactus, unico e scarso legno che si trova tra le rocce, non oscurano il sorriso della nonnina che ci abbraccia e ci ringrazia. L’odore di pecora impregna tutto l’ambiente, le scarpe sono rotte, i vestiti bucati, la pelle segnata dal sole e dal freddo. Respiro e mi perdo nell’osservare la sua bellezza: mani che parlano di lavoro duro e fatica, un sorriso che accarezza l’anima e poi gli occhi, occhi che cantano un idioma universale ed eterno di pace e rispetto. Unica compagnia 4 pecore e 2 cani spelacchiati.
Non resta che inginocchiarsi: porti il pane, incontri dignità.

II° Parte- L’acqua è possibilità
Santa Rosa de Tastil, 3200 metri dal mare, tra fine aprile e inizio maggio
“Quando il corpo è stanco, il cuore è felice”, Ramon mi guarda, ride assieme a Sandra e riprende a guidare. Lui non parla tantissimo, la sua è una saggezza genuina, spontanea e scherzosa. In realtà non capisco mai quando mi sta facendo uno scherzo, anzi, lo capisco sempre dopo che tutti stanno ridendo. Riesce ad alleggerire tutto senza perdere la giusta profondità. Oggi abbiamo lavorato tutto il giorno nel magazzino, ho fatto una fatica pazzesca a stargli dietro. Ramon e Sandra sono velocissimi e rilassati allo stesso tempo, non si fermano mai ma hanno sempre il tempo per un sorriso, una carezza ed una parola per chi incontrano e per offrire un sorso di mate. E così al ritmo di ‘tranquila pero rapida’, siamo riusciti a preparare gran parte degli alimenti e delle scarpe da portare a chi abita all’interno, tra le montagne, dove c’è il nulla. Dove si intravede a fatica la strada battuta, dove, proprio quando pensi di esserti perso nella Puna, vedi incastrata tra polvere e silenzio una umile tana in terra cruda senza finestre e con una porticina minuta. Spesso affianco c’è un recinto contenente pecore o capre, per i più fortunati una mucca. Se poi va proprio di lusso c’è un flebile rigolo di acqua marrone che scende a poca distanza. Acqua dove ci bevono gli animali e dove in alcuni casi, ci spiega Ramon, è disciolto l’arsenico o altri minerali che rendono uniche e colorate le montagne ma non potabile l’acqua. Sì, lì è veramente difficile trovare l’acqua potabile. Eppure mentre andiamo a distribuire alimenti, scarpe e vestiario notiamo nel nulla, uno spettro di metallo fatto di grossi tubi e installazioni idrauliche: l’unica pallida orma della presenza di un governo in quella zona. Peccato che, ci dice Ramon, l’acqua al suo interno sembra non essere potabile a causa di alcuni errori di costruzione o progettazione. Inoltre, per usufruirne gli abitanti dovrebbero pagarsi il lavoro e i materiali idraulici. Mi guardo attorno e vedo montagne, cactus, pecore, silenzio, non c’è una strada, non c’è un negozio, non esiste un supermercato. Alcune famiglie devono camminare 20 – 30 chilometri a piedi per arrivare al paesino dove c’è un minuscolo ambulatorio medico, una scuola con una decina di bambini di età miste e un museo storico dell’insediamento preincaico, la pacatezza di Santa Rosa de Tastil è attraversata solo dal rumore dei giganteschi camion che percorrono la ruta National 51 che porta in Cile, un gioco da ragazzi insomma procurarsi il materiale idraulico.
Eppure lì nelle montagne, tra il grigiore della roccia, chiare scritte di propaganda politica saltano all’occhio, propaganda che arriva dove l’acqua non riesce. Possibile che alcune madri o nonne debbano fare chilometri a piedi per prendere l’acqua? Queste forti mancanze sociali vanno in netto contrasto con l’accoglienza del luogo. Quei monti, quel cielo, quella pace che respiri a pieni polmoni è unica e senti che non ti manca niente, che puoi toccare le stelle con un dito, anche nel pieno della notte nel nulla, non ti senti mai solo. Ti senti parte di un tutto ma senza acqua non resta che la polvere, l’acqua è possibilità e vita. E lo si nota nei volti delle donne della comunità di Pacha Inti, dove la Fundacion Los Ninos de San Juan con Funima International stanno costruendo, assieme alla comunità, un condotto idrico per portare l’acqua potabile nelle abitazioni. Come arriviamo ci accolgono a braccia aperte e ci mostrano l’andamento dei lavori. Ci fermiamo a giocare un po’ con i bambini mentre Ramon fa il punto della situazione con la donna che pare avere un ruolo nel progetto o nella comunità. Non comprendo tutto ma dalle parole che riesco a intercettare dal dialogo la donna spiega la necessità che tutte le famiglie hanno di avere acqua pulita e di come questo progetto aprirà molte opportunità all’intera comunità.
Li salutiamo e via si riparte, ora bisogna prepararsi per tornare in città a Salta da dove partiremo per altre terre lasciandoci alle spalle i monti e le stelle. Destinazione Santa Vittoria Est, al confine con la Bolivia. Dove l’acqua non manca e anzi a volte inonda i villaggi e distrugge le abitazioni.

III° Parte- Una terra rossa che graffia e commuove
Santa Vittoria est, confine con Bolivia, 9 e 10 maggio 2019
Da 3200 metri scendiamo in città nel pomeriggio, un pranzo veloce e poi via con il furgone a raccogliere le ultime donazioni prima di partire. Ore 22.00 siamo al magazzino che carichiamo 3 suv e un furgone. Ore 01.30 della notte siamo in viaggio: direzione Santa Vittoria est. Come mi siedo in auto mi addormento.
Mi sveglio sei ore dopo quando iniziamo ad entrare nella strada di terra piena di buche: inizia il vero viaggio, quello che scuote da un lato all’altro come a volerti svegliare dal tuo benessere occidentale. Man mano che proseguiamo sembra di entrare nei paesaggi africani ammirati in cartoline e foto. Gli uccelli, la terra rossa, gli animali liberi, le strade e i villaggi rimembrano una annebbiata immagine di paradiso bucolico ed esotico perduto. Dopo altre due ore circa, arriviamo alla città principale, Santa Vittoria Est, ci riforniamo di acqua in un negozietto e ripartiamo. Mentre ci addentriamo nel bosco catturano la mia attenzione le persone che incrociamo a bordo sentiero: uomini e donne di terra cotta che avanzano sorridenti verso mete quotidiane e sconosciute illuminati dal sole, impotenti di fronte all’odore arido e disperato di una terra abbandonata che si aggrappa ai suoi alberi abbracciandone i rami e rivendicando la voglia di vivere.
Arriviamo così ad un villaggio molto distante dalla “città” nel quale la Fondazione non è mai stata. Sono i bambini i primi ad avvicinarsi quando scendiamo dalle auto. Gli sguardi curiosi, dubbiosi e diffidenti si sciolgono appena incrociano gli occhi giocosi ed accoglienti di Ramon. Nel giro di poco tempo il capo famiglia raggruppa tutti e iniziamo a distribuire ad ognuno ciò che abbiamo portato. E’ poco, lo sappiamo noi e lo sanno loro, quel cibo basterà per calmare l’agonia di qualche settimana di fame e poi saranno nuovamente abbandonati alla condizione che noi, conquistatori, predicatori ed evangelizzatori abbiamo contribuito a creare. Togliendogli le loro tradizioni e culture senza portargli nemmeno una goccia d’acqua potabile. Mentre distribuisco i vestiti mi incontro e scontro nello sguardo di alcune madri con i bambini in fascia. E’ uno sguardo che non riesco a sostenere, graffia violentemente. Anche l’aria che si respira arida è straziante, lacerante, come lo è veder morire un figlio di denutrizione a sedici anni.
Si chiamava Fidel Frias ed è cresciuto lì fino a qualche mese fa, in quel villaggio a 40, 50 chilometri da Santa Vittoria Est, la “città” dove la gente cammina scalza tra fango, bottiglie di Coca cola e cani pelle ossa. Dove gli occhi brillano e i piedi piangono le ferite del corpo.
Sono proprio gli occhi dei bambini che incontro nelle varie comunità che iniziano a scavare profondamente nel mio petto, mi sento un nulla difronte alla loro immensità. Riesco ancora a trattenere le lacrime finchè, nell’ultima comunità che visitiamo, sento le urla di dolore di una bambina che non riesce a camminare. Non si capisce perchè, non ha mai visto un medico e non si sa se sta così dalla nascita o se è successo qualcosa dopo. Una cascata di emozioni esplode senza fermarsi: rabbia, tanta, perchè ti senti colpevole e impotente; dolore perchè ti entra nella pelle; gratitudine per gli insegnamenti che con il loro esempio ti trasmettono; ammirazione perchè loro sanno sorridere e abbracciarsi anche quando l’alluvione ha appena distrutto le loro case; senso di inutilità perchè sì, siamo inutili, anzi dannosi, se non ci contaminiamo, sporcandoci le mani per questi fratelli e perchè non sai da dove iniziare per cambiare una situazione che secoli di società egoiche hanno creato; paura che quella società individualista in cui sei cresciuto ti condizioni; amore e fede per la vita perchè è quello che, nonostante tutto, ti insegnano continuamente questi popoli quando ti perdi nei loro abbracci e nei loro occhi scuri, profondi ma che brillano della stessa luce delle stelle.